Chi mi conosce bene sa quanto all’inizio di questo percorso, soprattutto negli anni accademici, la mia autostima (per non dire ego) fosse piuttosto alta.
In questi ultimi mesi tuttavia, mi ritrovo spesso a pensare agli obiettivi che fino ad oggi ho raggiunto, quali ancora no, ma soprattutto con chi li ho raggiunti.
Sarà questa quarantena, sarà che il mondo fuori dalle nostre case rallenta mentre lo smart working diventa sempre più frenetico, ma ogni giorno che passa sono sempre più convinto che da soli, per quanto veloci, non si andrebbe lontano.

Il vecchio stereotipo del “designer rockstar” sta (per fortuna) scomparendo.
Man mano che i team crescono e i progetti diventano più complessi, i designer vengono valutati anche in base alla loro capacità di collaborazione e supporto al team piuttosto che solo sulle singole abilità.

D’altronde bisogna essere in due per ballare il tango

I designer che lavorano in aziende più piccole spesso si trovano a portare avanti l’intero processo di progettazione da soli, portando contemporaneamente una cultura “orientata al design all’interno dell’organizzazione.
Un ruolo gratificante – ma spesso isolante – da assumere.

Al lato opposto troviamo i designer che fanno parte di aziende più grandi: questi sono spesso, almeno inizialmente, attratti dall’idea di far parte di un team più strutturato, per poi scoprire nella maggior parte dei casi che molte delle sfide e progetti che seguono sono gli stessi presenti nelle aziende più piccole.

Ciò che ho realizzato solo poco tempo fa grazie ad un collega è che i designer sono molto spesso, forse troppo, isolati nei loro team, con rari momenti di vera collaborazione.

«In quanto designer, posso fornire approfondimenti sulla strategia per un prodotto o una campagna?»
«In che modo potrei passare il mio lavoro allo sviluppatore per agevolargli il lavoro e ottenere un risultato migliore?»
Le politiche interne spesso creano “barriere territoriali”, complicando ulteriormente gli scambi produttivi tra colleghi.

La vera collaborazione richiede un insieme di regole, non un insieme di ruoli.

Questa situazione è inoltre aggravata da idee sbagliate come gli “Unicorn” (per farla breve: un bravo designer e allo stesso tempo un bravo sviluppatore).

Fonte immagine: Unicorn Designer Training Manual

Molti designer, cercando di assumere quell’immagine, continuano a lavorare unicamente su sé stessi per creare il proprio spettacolo individuale.
Ma la verità, e l’ho imparato io stesso in questi anni di agenzia, è che senza il contributo di altri membri del team, il prodotto finale spesso riflette la propensione per una visione miope e a volte insensata.

Ieri sera ho guardato il documentario su Fangio, – pilota argentino che ha stabilito tutti record della Formula 1 – prodotto da Netflix e sono stato colpito da una frase:

«Ciò che ho imparato nella mia carriera personale e che ho apprezzato anche in altri campioni […] è che avevano delle qualità che gli permettevano di lavorare a stretto contatto con la squadra. Erano in grado di motivare la squadra con cui lavoravano. Il team era parte della loro vita quotidiana.
Per questo credo che credo sia stata la più grande forza di Fangio: ascoltare le persone, sentire quello che avevano da dirgli.»

Sono convinto infatti che anche il miglior pilota del mondo, senza un buon team di meccanici non potrebbe vincere nessuna gara.

 

Lavorare in team è come una convivenza: non è facile, ma può essere bellissimo.

 

Se il team chiede costantemente chiarezza su un progetto, o se il flusso di lavoro ti porta verso operatività che esulano dalle “tue aree di competenza”, sono indubbiamente segnali che bisogna cogliere e agire, talvolta riformulando il processo di progettazione in modi differenti.

Lavorare su un’interazione o un’animazione ad esempio è un’attività che potrebbe essere fatta in collaborazione con gli sviluppatori, coniugando inoltre il desiderio di offrire esperienze di alta qualità.

In questi ultimi mesi, ritagliando maggiore tempo tra un progetto e l’altro ho cercato di rendere i miei feedback nei confronti del team più strutturati, volti a creare un maggiore confronto sulle idee e un complessivo miglioramento del progetto, che spesso sarebbe già sufficientemente buono per essere sottoposto alla committenza. Credo infatti che questo possa contribuire alla crescita professionale di tutti i componenti del team.

Il design è una disciplina orizzontale. Per fare questo lavoro è necessario possedere la capacità di entrare in empatia con gli altri, comprendere le loro motivazioni e emozioni. Ovviamente ciò ci può aiutare anche all’interno delle nostre aziende.

Nel 2020, essere un fattore abilitante nella propria organizzazione significa riunire il team verso un obiettivo comune.
Lasciare il proprio ego fuori dalla porta aiuterà a creare uno spazio più sicuro e duraturo per collaborazione libere da titoli o dipartimenti.

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